Tutti noi ci raccontiamo una storia. Quando ho scoperto che la fotografia aiuta anche a raccontarsi con più sincerità le cose, l’ho adottata. O forse è stata lei ad adottare me. Qualche tempo fa mi sono reso conto che attraverso le immagini che colgo lungo la strada, non contemplo soltanto istanti di vita ma racconto implicitamente una mia visione intima condizionata da facoltà in divenire, da un’indole irrequieta, da un intelletto in perenne subbuglio. Alla continua ricerca di un qualcosa che probabilmente si definirà soltanto quando si presenterà davanti agli occhi, una rivelazione che spero possa apparire anche davanti al mio obiettivo. Fotografando tento in fondo di scorgere connessioni, di riconoscere “segni”, di arricchirmi attraverso l’empatia e la condivisione, di instaurare rapporti non soltanto nelle forme affini al mio modo di essere, pensare e immaginare. Mi preme chiarire che per educazione, carattere e formazione, la mia fotografia non intende intaccare la privacy e la dignità del prossimo… tutt’altro. Persino durante gli eventi commissionati cerco di far emergere l’essenza dei protagonisti, attraverso un’osservazione pressoché continua atta a rilevare un gesto, un modo di fare e di essere, una peculiarità in grado di definire. Ovviamente parlo di tentativi basati sull’autenticità dell’essere, poiché posso solo intuire l’evoluzione delle azioni che il mio obiettivo sta catturando.

Prendete ad esempio la foto numero 1 della gallery che illustra l’articolo: i volti degli sposi, l’una a coprire l’altro, testimonierebbero la valenza dell’equazione uno più uno uguale uno. In altre parole, una singolarità più un’altra singolarità si fondono in un unicum chiamato “amore”. Indissolubilmente direi. Una sorta di sigillo Divino al senso del matrimonio cattolico, e non solo considerando che il concetto deriva dalla filosofia buddista. Aggiungerei che il mare di sfondo simboleggerebbe l’esigenza di libertà in cui dovrebbero muoversi le singolarità convergenti nell’unione. Ricordate le parole sull’amore di Khalil Gibran?

Tornando al tema originario, ritengo che per rapportarsi nel migliore dei modi con i nostri simili si debba ingaggiare prima la sfida delle sfide: conoscere se stessi. Accettarsi poi per quel che si è, diventa un passaggio obbligato per cercare di migliorarsi a ogni livello. Perciò, trasmettere una piccola scoperta, alcune mie fotografie, talune mie riflessioni, l’ho sentito quasi come un dovere etico prim’ancora che civico e culturale. Le paure irrazionali aggrediscono chi pensa esclusivamente a se stesso, chi non ha voglia di progredire, chi tralascia il piacere del sapere e del conoscere; chi in altre parole trascura se stesso ed è indifferente al prossimo.

Giuseppe Tricarico